Responsabilità Medica e Sanitaria
Avvocato Esperto in
Malasanità a Roma
Numerosi sono i processi in tema di responsabilità professionale, e nella specie medica.
Si tratta di reati colposi di conseguenza puniti con pene detentive di non particolare severità, per i quali non sono nella prassi quotidiana previste misure cautelari.
Che si sia accusati o vittime di questa tipologia di delitti l’accertamento del fatto e la sussistenza di eventuali relative responsabilità risulta particolarmente delicato, e si dimostra indispensabile la tempestività dell’intervento da parte di un difensore qualificato, che deve intervenire adeguatamente fornendo il proprio parere spesso in pendenza di termini processuali ristretti, quali i termini per la proposizione di una eventuale querela.
Indispensabile il ricorso a Consulenti Tecnici (nel caso ovviamente medici o medici-legali) specializzati nello specifico settore, esperti nelle valutazioni e disponibili (come non sempre accade) a fornire la propria autorevole opinione sul caso dapprima con una Relazione scritta, e poi in sede processuale o dibattimentale.
Accade infatti di frequente che un sanitario, magari richiesto dai familiari di un paziente/vittima, operi censure sull’operato di colleghi ma non sia poi disposto a formalizzare tali censure o non abbia l’autorevolezza per contrastare quella del medico operante.
Il loro intervento ausiliario consente peraltro di sostenere o di escludere l’elemento probatorio relativo al nesso di causalità, elemento fondamentale per la sussistenza del reato, la cui primaria importanza sfugge di frequente ai più tanto nel caso di colpa medica (malpractice) subita che eventualmente commessa.
La materia della responsabilità medica si inserisce nell’alveo delle responsabilità professionali, che trovano il proprio fondamento normativo nel Capo II del titolo III del Libro V del codice civile, ed in particolare nell’art. 2236 c.c. che esclude la responsabilità per “colpa lieve” del prestatore d’opera intellettuale.
Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale quale quella in esame è richiesta un tipo di diligenza diversa da quella del “buon padre di famiglia” (cfr. art. 1176, comma 1 c.c.) e parametrata invece alla specifica tipologia di attività svolta e l’art. 1176 del c.c. al comma secondo si riferisce alla diligenza c.d. “qualificata”.
Tale forma di diligenza si definisce “perizia”, intesa quale conoscenza ed applicazione di quel complesso di regole tecniche proprie della categoria professionale di appartenenza, nella specie quelle proprie dell’ars medica, mirate a circoscrivere l’ambito del rischio consentito e, per l’effetto, quello relativo alla liceità dell’intervento medico-sanitario.
La fattispecie della colpa medica può ravvisarsi ogniqualvolta vi sia un’inosservanza e/o violazione da parte del sanitario delle specifiche regole cautelari di condotta proprie dell’agente modello del settore specialistico di riferimento. La condotta può essere omissiva, allorché l’errore medico (terapeutico o diagnostico) si realizzi nell’omissione delle cautele prescritte, da valutare anche con riferimento ai protocolli terapeutici standardizzati, oppure commissiva, laddove la violazione si realizzi attraverso condotte attive.
Analizzeremo tanto la natura giuridica della responsabilità medica nel contesto antecedente e successivo alla introduzione della Legge n. 24 del 2017 (Legge “Gelli-Bianco”), tanto il tema della ripartizione dell’onere della prova e, da ultimo la responsabilità del sanitario conseguente alla violazione degli obblighi informativi nei confronti del paziente.
La natura giuridica della responsabilità del medico prima della Legge n. 24/2017 (Legge “Gelli-Bianco”).
Nell’esercizio dell’attività medica occorre preliminarmente distinguere la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria, da quella del singolo medico che in concreto ha posto in essere la condotta colposa in danno del paziente.
Per quanto riguarda la prima, relativa alla responsabilità della struttura sanitaria, dottrina e giurisprudenza consolidata la inquadrano nel campo della responsabilità contrattuale, stante accettazione del paziente in ospedale (per un ricovero o una visita ambulatoriale) e la relativa conclusione di un contratto e, nello specifico, di un contratto atipico di spedalità, da cui discendono prestazioni corrispettive con effetti protettivi.
La struttura sanitaria sarà tenuta a rispondere in via diretta nelle ipotesi di inefficienza organizzativa (p.e. inadeguata turnazione del personale, malfunzionamento delle apparecchiature sanitarie, etc etc.), per gli obblighi accessori connessi alla prestazione principale, configurandosi il c.d. danno da disorganizzazione e, in via indiretta, nelle ipotesi di obbligazioni mediche in senso stretto (intervento diagnostico e/o terapeutico), ove risponderà ai sensi dell’art. 1228 c.c. per fatto commesso dagli “ausiliari”.
L’obbligo di cura del sanitario deriva dal contratto d’opera professionale stipulato direttamente con il paziente o per effetto del rapporto di lavoro esistente tra medico e struttura sanitaria, in questo caso con una sorta di scissione tra profilo formale del contratto concluso con il paziente dalla struttura sanitaria, e profilo sostanziale svolto dal medico che materialmente ha eseguito la relativa prestazione.
Sul punto specifico la giurisprudenza della Suprema Corte, con sentenza n. 589 del 1999, ha inquadrato la responsabilità del medico tra le ipotesi di responsabilità contrattuale sia nel caso in cui tra medico e paziente sussista un pregresso contatto, sia nel caso in cui esso manchi del tutto.
Proprio nel settore medico è stata definita la responsabilità da contatto sociale qualificato, per il quale sin dal momento dell’accettazione del paziente in ospedale o dalla presa in carico da parte del medico, si instaura in capo al professionista un dovere di eseguire la prestazione con diligenza e correttezza, senza produrre pregiudizi in capo al paziente e, dall’altra parte, si ingenera in capo a quest’ultimo un legittimo affidamento nell’operato del sanitario.
Alla luce di tale elaborazione la responsabilità contrattuale derivante da un’obbligazione senza prestazione, gravando sul medico gli obblighi di cura impostigli dall’arte che esercita e la loro violazione, determina la culpa in non faciendo e la relativa responsabilità contrattuale. Dal contatto qualificato deriva quale conseguenza che il medico dovrà proteggere l’assistito evitando di lederlo, in ossequio al dovere di buona fede, cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., e la prestazione di cura occasionale costituisce il quid del contatto sociale qualificato che realizza il fatto giuridico idoneo ex art. 1173 c.c. a determinare l’obbligazione di protezione.
Quale immediata conseguenza di tale teoria l’applicabilità alla responsabilità medica da contatto sociale dei principi della responsabilità contrattuale cui l’art. 1218 c.c., per i quali l’onere della prova è semplificato, limitandosi il paziente ad allegare l’inadempimento del medico con termine prescrizionale decennale della relativa azione risarcitoria.
Per quanto attiene la prova liberatoria sino al 2001 il regime probatorio era regolato secondo il grado di complessità dell’intervento medico praticato.Nei casi di interventi di routine o, comunque, di non difficile esecuzione, ai quali fosse conseguito un risultato nefasto, il paziente avrebbe dovuto solamente provare la semplicità dell’intervento dal quale era derivato un esito peggiorativo delle proprie condizioni a fronte di una statistica di casi favorevoli, con relativa presunzione di negligente adempimento della prestazione; la prova contraria gravava pertanto sul medico, il quale avrebbe dovuto dimostrare che l’esito peggiorativo delle condizioni era dovuto a causa imprevista o imprevedibile o comunque a lui non imputabile; nel caso invece di intervento particolarmente complesso, esclusa la citata presunzione, al medico era sufficiente dedurre la complessità dell’intervento ed al paziente dimostrare che l’esito infausto fosse ascrivibile all’operato del sanitario e non già all’alea terapeutica.
Dopo la pronuncia a Sez. Un. n. 13533 del 2001 la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione particolarmente complessa rileva invece ai limitati fini della valutazione del grado di diligenza richiesto e del corrispondente grado di colpa, ed il paziente che agisce in giudizio dovrà allegare il contratto e l’inadempimento, gravando sul medico la prova liberatoria dell’esatto adempimento oppure dell’inadempimento dovuto a causa ad egli non imputabile.
La Legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”) e la “riforma” della responsabilità medica
Con la legge dell’8 marzo 2017, n. 24 c.d. legge “Gelli-Bianco”, il legislatore è intervenuto in modo decisivo sul tema della responsabilità derivante dall’esercizio di attività sanitaria introducendo un sistema a doppio binario.
L’art. 7 della legge n. 24/2017 ha da un lato confermato la responsabilità della struttura ospedaliera a base contrattuale, in virtù dell’avvenuta stipulazione del contratto atipico di spedalità mediante l’acquisizione del consenso, anche implico (accettazione) del paziente e, per l’effetto, la responsabilità ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.; dall’altro operato una sorta di “decontrattualizzazione” della responsabilità del medico, sancendone la natura extracontrattuale o aquiliana, salvo l’ipotesi della sussistenza di un pregresso contratto d’opera professionale stipulato con il paziente.
La condotta del medico costituisce pertanto un fatto illecito produttivo di un danno ingiusto, come tale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., con una serie di conseguenze sul piano sistematico e probatorio, ricadendo l’onere in capo al paziente, e la necessità di dimostrare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie con termine prescrizionale quinquennale del relativo dritto al risarcimento del danno.
Da ciò un evidente minor rischio di condanna del medico.
La citata legge “Gelli-Bianco” introduce inoltre nel codice penale l’art. 590-sexies avente ad oggetto la responsabilità penale colposa per morte o per lesioni in ambito sanitario.
Il principale elemento di novità è la causa di esclusione della punibilità del sanitario di cui al comma 2 “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia” e lo stesso abbia “rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”, introducendo in tal modo un meccanismo premiale in favore del medico che abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali.
Ulteriore elemento introdotto dalla citata legge la limitazione della nuova disciplina alle sole ipotesi di colpa per imperizia. Essa impone infatti la necessità di distinguere tra imperizia e imprudenza/negligenza, distinzione, tuttavia, determina diversi problemi intepretativi affrontati in alcune sentenza “pilota” della Cassazione alla luce della quali “l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica” (Cass. pen., sent. n. 16237 del 2013, Cantore); v’è necessità di una valutazione comparativa di plurimi indicatori ai fini della sussistenza della colpa (Cass. pen., sez. IV, sent. n. 23283 del 2016, Denegri) ed il reato pertanto sussiste: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico”.
I criteri di accertamento del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l’evento dannoso
Il nesso di causalità è un elemento strutturale dell’illecito che rileva sul piano strettamente oggettivo, attenendo alla relazione esterna tra il comportamento astrattamente considerato e l’evento.
Nell’ambito della responsabilità medica il paziente-danneggiato che agisce in giudizio dovrà dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie illecita, ai sensi dell’art 2043 c.c.; l’attore dovrà pertanto provare la sussistenza del nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale, ossia la discendenza dell’evento lesivo dalla condotta posta in essere dal sanitario, sia sotto il profilo della causalità giuridica, ossia la individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’evento, precisando che tale prova potrà essere raggiunta anche mediante presunzioni; la violazione delle regole di diligenza professionale non ha una intrinseca attitudine causale alla produzione del danno- evento, che rileva sotto il profilo della causalità materiale, poiché l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie non sono immanenti alla violazione delle regole dell’ars medica e potrebbero avere una diversa eziologia. Pertanto, la mera allegazione della causalità materiale non assorbe ipso iure la causalità giuridica; dimostrare il solo inadempimento non significa dimostrare il danno-evento, che ha ad oggetto un interesse ulteriore corrispondente alla la lesione dell’interesse presupposto in termini di danno alla salute.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione si ha pertanto un “doppio ciclo causale”, l’uno, preliminare. relativo all’evento dannoso, e l’altro successivo relativo all’impossibilità di adempiere: l’onere di provare la causalità tra condotta e danno-evento e tra questo e il danno-conseguenza grava sul paziente, ossia sul creditore della prestazione; se il creditore ha provato, anche per il tramite di presunzioni, il nesso eziologico fra condotta del debitore, nella sua materialità e l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, gli oneri probatori del debitore, ossia del medico, sono relativi alla dimostrazione dell’assenza di colpa, ossia che l’inadempimento o inesatto adempimento sia disceso da cause esterne ad egli non imputabili e come tali imprevedibili e inevitabili.
Danno causato al paziente da un intervento per il quale non è stato acquisito il consenso informato
Il consenso informato è un diritto del paziente riconosciuto sia sul piano nazionale, alla luce degli artt. 2, 13 e 32, comma 2 della Costituzione sia sul piano sovranazionale, art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti umani.
E’ espressione della libertà di autodeterminazione del singolo, il quale ai sensi dell’art. 32, comma 2 Cost. ha il diritto di rifiutare le cure, salvo i casi espressamente previsti dalla legge di trattamenti sanitari obbligatori e coperti da riserva assoluta di legge.
Ha trovato la sua regolamentazione nella L. n. 219 del 2017, il cui art. 1, rubricato per l’appunto “consenso informato”, da attuazione ai principi di diritto cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. nonché sanciti dalla Carta di Nizza.
Ai fini della liceità dell’intervento medico è pertanto necessario che il consenso sia fornito personalmente dal paziente in modo esplicito, che il paziente sia informato dell’esito dell’intervento e delle eventuali conseguenze, per il tramite di moduli standardizzati o per informativa del medico curante e, inoltre, il consenso deve essere attuale, specifico e sempre revocabile.
Fissati i limiti normativi del consenso informato, esaminiamo le conseguenze derivanti dal loro mancato adempimento.
La giurisprudenza ha infatti da sempre riconosciuto un danno all’autodeterminazione del paziente, autonomo e indipendente rispetto al danno alla salute, derivante quindi dall’inadempimento di obblighi diversi: per l’autodeterminazione, il riferimento è a quelli gravanti sul medico; per la salute a quelli di protezione e cura.
La conseguenza dannosa si sostanzia in un pregiudizio non patrimoniale, il c.d. “stupor”, ossia la sofferenza interiore e soggettiva di non aver potuto disporre liberamente di sé, danno come tale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.
La Corte di Cassazione ha statuito in virtù del principio di vicinanza della prova ha stabilito come il paziente che agisca in giudizio sarà gravato da un duplice onere: dovrà allegare sia l’inadempimento del consenso informativo sia un fatto attinente alla propria sfera soggettiva, rappresentato dal suo eventuale rifiuto. Deve trattarsi di un fatto sopravvenuto che il sanitario non avrebbe potuto prevedere e che il paziente può provare con ogni mezzo. Dovrà da ultimo provare il danno – conseguenza dell’inadempimento, rappresentato dallo stupor subito.